Dati alla mano: cosa dicono metanalisi e linee guida
- Maria Rosa Valetto
Immagine:
È di Bernardino Ramazzini, pioniere della medicina del lavoro, un tentativo ante litteram di evidence based medicine applicato alla relazione tra sedentarietà sul luogo di lavoro e cattivo stato di salute. Nel 1713, infatti, il medico italiano annotava nel suo “De morbis artificum diatriba” (“Le malattie dei lavoratori”): «coloro che fanno vita sedentaria detti perciò in latino sellularii artifices, come calzolai e sarti, patiscono dei suoi mali particolari». Dopo aver descritto deformità muscolo-scheletriche e “ristagni” da alterazioni del circolo con dotti riferimenti a casi citati da Ippocrate o descritti da Plauto, Marazzini conclude che «son soliti dunque tali artefici soffrire mala intemperie, e molta ridondanza di sughi viziosi, per cagione di dover star continuamente seduti». E passa così alle raccomandazioni: «Debbon altresì consigliarsi che almeno i dì festivi tengano in moto i loro corpi, e compensino in qualche parte con il profitto di qualche giorno il danno della settimana».
I vantaggi di investire nella salute
Già allora era quindi evidente che la lunga permanenza sul luogo di lavoro è determinate per la salute. Oggi il 35% circa dei cittadini europei trascorre seduto una media di 7 ore al giorno. Si è però anche capito che il luogo di lavoro è un posto adatto per raggiungere, informare e istruire le persone e ha quindi una grande potenzialità in ambito di workplace health promotion. Espressione che indica l’insieme degli interventi finalizzati a garantire sicurezza, salute e benessere nei luoghi di lavoro tramite il miglioramento dell’ambiente e dell’organizzazione, l’invito alla partecipazione attiva dei lavoratori al processo di promozione della salute, la possibilità di compiere scelte salutari e l’incoraggiamento dello sviluppo personale. C’è ormai ampio consenso sul fatto che sia necessario un approccio multicomponente.
Le condizioni favorevoli per questo tipo di iniziative si sono create soprattutto a partire dagli anni ’90, quando è aumentata la sensibilità dei datori di lavoro nei confronti della salute e del benessere dei dipendenti: investire sulla salute può tradursi in benefici concreti anche per l’azienda, come la diminuzione di assenze per malattia e la garanzia di organici più efficienti e motivati.
Un percorso storico, tra studi e ricerche chiave
I primi documenti sono cauti. Un corposo report pubblicato nel 1996 dai Centers for Disease Control and Prevention (Cdc) di Atlanta dichiarava che gli interventi sul luogo di lavoro sono un campo promettente ma con esperienza al momento limitata. La situazione europea è stata fotografata più tardi, nel 2009, con un lavoro di analisi dei 49 documenti programmatici di politica nazionale sulla pratica dell’attività fisica prodotti in 24 Paesi Ue. Allora soltanto la Danimarca aveva preso in considerazione in modo concreto la promozione e la pratica dell’attività fisica sul luogo di lavoro.
Una delle prime esaustive metanalisi è stata pubblicata sull’American Journal of Preventive Medicine: considera 138 studi primari effettuati dal 1969 al 2007 che nell’insieme hanno coinvolto oltre 38 mila persone. Nonostante la marcata eterogeneità di disegno e valutazione degli esiti, è emerso un beneficio per la salute. Rispetto ai gruppi di controllo, infatti, quelli sottoposti a interventi di promozione dell’attività fisica sul luogo di lavoro - in poco meno di un terzo si trattava di sessioni di esercizi sotto supervisione, nell’80% dei casi era previsto un intervento motivazionale ed educativo - hanno ottenuto risultati migliori in termini di incremento della capacità aerobica massimale, riduzione del rapporto tra colesterolo totale e colesterolo Hdl, della glicemia a digiuno e del rischio di diabete. La revisione ha evidenziato inoltre come la stragrande maggioranza degli interventi sia realizzata in aziende medio-grandi (con almeno 750 dipendenti): un dato in accordo con quanto si rileva con le strategie di lotta al fumo, dove sembra che le dimensioni dell’impresa incidano sulla propensione del datore di lavoro a investire nella salute.
Le analisi di Oms e Nice
Il report Oms del 2009 “Interventions on diet and physical activity: what works” analizza le prove di efficacia, suddividendo gli interventi per promozione dell’attività fisica e di una corretta alimentazione in 8 ambienti diversi, uno dei quali è appunto il luogo di lavoro. Le conclusioni sono favorevoli, anche se meritano ulteriori verifiche. I 38 studi relativi agli interventi sul luogo di lavoro - per la maggior parte riferiti al contesto nordamericano - comprendono modifiche dell’ambiente (compresa l’apertura di palestre o spazi dedicati) e campagne informative e promozionali, come l’invito a usare le scale anziché l’ascensore. Per la metà delle esperienze, è dimostrata la capacità di determinare cambiamenti psicosociali positivi sia in termini di conoscenza, atteggiamenti e convinzioni (attitude), sia di controllo degli aspetti modificabili del proprio comportamento (self efficacy). Esiti clinici in genere non vengono valutati, però in una quindicina di studi si segnalano miglioramenti di parametri fisiologici come il peso corporeo, i livelli di pressione arteriosa e colesterolo.
Negli stessi anni sono state messe a punto raccomandazioni e linee guida. Nel 2008, escono quelle britanniche del Nice (National Institute for Health and Clinical Excellence): dopo aver espresso le proprie indicazioni, il Nice come sempre elenca anche le lacune conoscitive e le questioni aperte, meritevoli di approfondimenti futuri. Tra le prime, si segnalano: i limiti metodologici di molti studi sulla valutazione degli esiti, il dettaglio spesso non adeguato sulle caratteristiche del posto di lavoro e dei dipendenti, la non frequente stima del rapporto costo-efficacia degli interventi. Inoltre, le prove sui vantaggi per l’azienda (tipicamente l’aumento della produttività da minore assenteismo) derivano dalla cosiddetta letteratura grigia. Diverse questioni necessitano invece di ulteriori analisi:
- la valutazione dell’efficacia degli interventi anche sulla base delle caratteristiche individuali (età, genere, etnia, stato socioeconomico, disabilità) e su quelle del posto di lavoro (dimensioni dell’azienda e tipo di attività)
- un giudizio sull’impatto complessivo di iniziative di promozione dell’attività fisica sul luogo di lavoro (per esempio, l’adesione a forme di trasferimento attivo casa-lavoro si aggiunge alla quota di esercizio già praticata o viene compensata dall’abbandono di altre occasioni di vita attiva?)
- l’impatto clinico, come il numero dei casi di malattia effettivamente evitati e loro gravità
- una stima dell’adesione e dei livelli di partecipazione alle iniziative.
La situazione in Italia
Per quanto riguarda il nostro Paese, il documento “Lotta alla sedentarietà e promozione dell’attività fisica” pubblicato nel 2011 dal Snlg (Sistema nazionale linee guida) analizza la letteratura disponibile sull’efficacia degli interventi per la promozione dell’attività fisica, individuando 23 linee guida, 5 delle quali destinate in particolare alla popolazione in età lavorativa. C’è poi il manuale “Esperienze e strumenti per la promozione dell’attività fisica nei luoghi di lavoro”, pubblicato nel 2013 dal Centro di documentazione per la promozione della salute della Regione Piemonte (Dors): uno dei documenti più recenti in materia, passa in rassegna esperienze locali delle aziende sanitarie piemontesi, ma anche buone pratiche portate avanti a livello regionale, nazionale e internazionale evidenziandone le specificità, i punti di forza e debolezza.
Aggiungi un commento