La lunga lotta contro la sedentarietà

Anche se chi tenta di contrastarla incontra ostacoli e contraddizioni, c’è spazio per strategie e azioni mirate. Una rassegna su Plos Medicine descrive criticità e propone soluzioni.
25/07/2013
  • Maria Rosa Valetto
Lo speciale di Plos Medicine sulla sedentarietà

Immagine: 

(fotografia di Margaret Winker - fonte: plosmedicine.org)

Dalla serie di articoli pubblicati a giugno sulla rivista medica Plos Medicine è evidente il senso di frustrazione di chi è impegnato a combattere la sedentarietà. Aggettivi come wicked o malignant o metafore come «disastro al rallentatore» ricorrono di continuo. Ma, pur prendendo atto delle oggettive difficoltà, perché non provare a vedere il bicchiere mezzo pieno?

Sulla carta c’è molto…
L’editoriale di Plos sottolinea che la sedentarietà, quarta causa di mortalità a livello mondiale, è sfuggente, difficile da scomporre nei suoi singoli fattori e legata a tanti comportamenti a rischio, individuali (tipicamente la dieta) e collettivi (inquinamento, urbanizzazione, traffico). Comunque, dopo tanti anni di studio e osservazione, le basi teoriche ci sono: già nel 2004 l’Oms è riuscita a delineare le strategie globali su dieta e attività fisica e poi a stabilire con ragionevole sicurezza cosa davvero funzioni e sia efficace.

La revisione sistematica di un gruppo coordinato da Patrick Kolsteren del Nutrition and Child Health Unit dell’Istituto di Medicina tropicale di Anversa indica che, a quasi un decennio dal suo lancio, la strategia Oms è stata recepita in documenti programmatici nel 72% dei Paesi. Ma in meno della metà dei casi essi sono diventati operativi, poche sono le azioni specifiche a favore della dieta e dell’attività fisica e ancora più esigua (12%) è la quota dei Paesi che hanno applicato un approccio globale con interventi su tutti e quattro i fattori di rischio analizzati: contenuto di sale negli alimenti, consumo di grassi, assunzione di frutta e verdura e attività fisica. Appare più che giustificato il timore che, per inerzia, non si riesca ad attivare gli opportuni interventi sociosanitari e che i decisori, consapevoli ma privi di iniziativa, si rendano colpevoli di «fare danni non facendo nulla».

 …ma si deve passare all’azione
Come evitare, allora, che tutto questo lavoro giaccia come lettera morta nei cassetti? Ispirandosi alle situazioni esemplari che emergono in scenari estremamente variabili. A richiedere più attenzione sono i Paesi emergenti, dove il progressivo processo di urbanizzazione sta modificando le abitudini a favore della sedentarietà, con una dinamica assai rapida che richiede risposte pronte. Il passaggio è paragonabile a quello vissuto nel nostro dopoguerra, con la differenza che oggi l’osservazione epidemiologica e i precedenti storici potrebbero insegnare cosa evitare e su cosa puntare, con un vantaggio netto per indirizzare le azioni.

I casi della Cina e dell’India
Non è detto, per esempio, che le immagini dell’Estremo Oriente brulicanti di pedoni o ciclisti diventino da cartolina. La Cina, il “regno delle biciclette” per eccellenza, sembrava aver iniziato il suo declino cedendo il passo nell’ultimo trentennio ai veicoli motorizzati. Eppure, con un moto d’orgoglio, pare non aver abdicato: e così, nel giro di pochi anni, le due ruote si sono ricollocate in una rete di 39 servizi di bike sharing, la più fitta del mondo.

In India, secondo i dati dell’Indian Migration Study condotto tra il 2005 e il 2007 su 4 mila lavoratori di circa 40 anni, non appena si riduce l’active travel (a piedi, in bici o con i mezzi pubblici per andare al lavoro), le malattie croniche si materializzano come una maledizione. Tra i lavoratori rurali resiste l’abitudine a utilizzare la bici per andare a lavorare (68%), assai più che tra i cittadini (16%). L’auto resta un privilegio per un ristretto 12% in campagna anche se ha già superato lo spostamento a piedi e i mezzi pubblici. In città è invece usata dal 44% dei lavoratori nel tragitto casa-luogo di lavoro. Ebbene, la prevalenza di sovrappeso, obesità e diabete risulta nettamente inferiore (la riduzione del rischio è del 40-50%, secondo le condizioni) in chi ricorre alle proprie forze o al trasporto pubblico, rispetto a chi usa un veicolo a motore.

I decisori sono quindi chiamati a un duplice impegno: arrestare l’abbandono di azioni quotidiane salutari nelle aree rurali e favorire l’esercizio fisico nei centri urbani sempre più popolati. Il processo di urbanizzazione è infatti dilagante: se nel 1980 solo il 23% della popolazione viveva in città, nel 2010 questa quota è salita al 31% e nel 2050 supererà il 50%. Per rispondere a una dinamica così travolgente servono investimenti nei trasporti pubblici, migliorando la sicurezza di strade e città. A New Delhi si stanno già sperimentando alcune interessanti esperienze di mobilità sostenibile. Ma ci si spinge anche a ipotizzare soluzioni deterrenti come il razionamento dei carburanti, pedaggi autostradali, limitazioni dei parcheggi e riduzione dei limiti di velocità grazie a dissuasori come dossi o rotonde. Altri obiettivi auspicabili, ma certamente più impegnativi, sono le facilitazioni sul luogo di lavoro: da apposite zone di sosta riservate alle biciclette fino alle docce per quando si scende dalla biciclette troppo accaldati.

Risposte rapide cercasi
Qualcuno suggerisce di mettere a punto un archivio condiviso che ospiti e documenti tutte le iniziative a livello mondiale: un patrimonio di informazioni da collegare ai dati delle sorveglianze, in modo da mappare l’implementazione dei programmi e valutare nel tempo i risultati. Già, perché anche nel migliore dei mondi possibili - quello in cui gli interventi siano stati messi puntualmente in atto - bisogna comunque misurarne le ricadute. A questo proposito, una buona notizia c’è: a giugno una risoluzione dell’Assemblea mondiale della sanità ha individuato per la prima volta 9 obiettivi globali e 25 indicatori per le malattie croniche. Qualcosa di misurabile e omogeneo, promettente anche se ancora una volta arduo da applicare. Lo sforzo per la raccolta dei dati è notevole, difficilmente sostenibile proprio da quei Paesi che più avrebbero bisogno di leggere come un libro aperto la propria situazione. Per questo sono benvenuti anche gli appelli a interlocutori diversi, come quelli riuniti a livello filantropico nel Global Burden of Disease Project con il sostegno della Fondazione Bill & Melinda Gates.

 

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