Persone fragili: l’esercizio fisico è la terapia, ma l’accesso è complicato

Sono tantissimi e proprio a loro l’attività motoria potrebbe portare grandi benefici. Eppure è ancora così difficile rendere sport e movimento alla portata di alcune fasce di popolazione particolarmente svantaggiate. I disabili, prima di tutto. Ma anche donne in gravidanza e in menopausa, malati cronici, anziani, carcerati, migranti, persone con basso livello di istruzione o in difficoltà economiche. Per tutti questi l’esercizio fisico, pur costituendo una “cura” o un potente strumento di prevenzione, in realtà è ancora un miraggio. Però le opportunità, tra buone pratiche e soluzioni innovative, non mancano.
21/10/2014
  • Stefano Menna

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credit: Corbis

È stato uno speciale della rivista medica Lancet a lanciare l’allarme e portare l’attenzione su un problema troppo spesso dimenticato. Sono oltre un miliardo, in tutto il mondo, le persone che soffrono di qualche disabilità. E moltissimi di loro sono costretti ad affrontare ostacoli di ogni tipo nella vita di tutti i giorni: l’handicap in quanto tale o il suo vissuto, le barriere architettoniche, il senso di insicurezza e inadeguatezza, la paura, le riserve personali e dei familiari, le difficoltà socioeconomiche. Purtroppo non fa eccezione la pratica regolare dell’attività motoria, della quale molti di loro avrebbero persino più bisogno rispetto al resto della popolazione. Alcune malattie o sindromi si associano infatti a un rischio cardiovascolare più alto, disturbi metabolici e alterazioni osteo-muscolari; a volte c’è una storia di ipernutrizione come comportamento protettivo o gratificante da parte della famiglia e le relazioni sociali sono minime se non addirittura assenti.

Numeri eloquenti
Che il rapporto tra disabilità e attività fisica sia conflittuale lo confermano i numeri che provengono dagli Stati Uniti. La situazione è stata fotografata dai Centers for Disease Control and Prevention (Cdc), sulla base dei dati 2009-2012 ricavati dalla National Health Interview Survey. Il 47% degli adulti disabili sono poco attivi e il 40% soffre di malattie croniche (patologie cardio e cerebrovascolari, diabete di tipo 2, qualche forma di tumore). Cifre eclatanti se confrontate, rispettivamente, con il 26% e il 14% che invece si registrano nella popolazione generale. Non solo: la probabilità di adottare uno stile di vita sedentario e inattivo raddoppia tra i portatori di handicap. Eppure dall’indagine risulta che solo 4 medici su 10 abbiano raccomandato o prescritto un po’ di esercizio fisico ai loro assistiti disabili.

Per far fronte a questa situazione, dove è carente anche l’informazione, i Cdc hanno pubblicato on line una serie di risorse utili, ricordando che tra gli obiettivi del programma Healthy People 2020 rientra l’impegno di medici e operatori a promuovere l’attività fisica. Sono compresi i pazienti con disabilità, sui quali si può lavorare con azioni di counselling. Nelle linee guida del 2008, i Cdc dedicano un intero capitolo alle indicazioni per i disabili, da cui si evincono una serie di messaggi chiave per sottolineare gli aspetti più significativi. Per esempio, non è necessario che l’attività fisica sia energica per ottenere un beneficio per la salute; piuttosto è importante che l’impegno sia costante e distribuito in sessioni più o meno prolungate in relazione inversa con l’intensità (per esempio: 30-40 minuti di spinta in autonomia della sedia a rotelle, o 20 minuti di basket in carrozzina). È poi importante che il programma di attività rispetti sempre le esigenze, le preferenze e si adatti alla quotidianità e alle specifiche caratteristiche delle persone disabili. È infine importante che ci siano le opportune condizioni ambientali in grado di favorire lo svolgimento dell’attività motoria in termini di sicurezza, accessibilità e gradevolezza del contesto.

La situazione in Italia
Nel nostro Paese, il Piano nazionale per la promozione dell'attività sportiva varato dal Governo nel 2012 intende avvicinare tutti i cittadini alla pratica dello sport e dell’attività motoria, promuovendo la tutela della salute, la prevenzione, il recupero di deficit funzionali, l’inclusione sociale e l’integrazione delle persone diversamente abili e delle categorie deboli.

Punto di riferimento nel mondo dello sport per le persone con disabilità è il Comitato italiano paralimpico, che ha compiti analoghi a quelli affidati al Coni per quel che attiene la pratica sportiva dei normodotati. Al 2011, le persone con disabilità tesserate con le federazioni riconosciute erano oltre 60 mila, distribuite in quasi 2 mila società sportive affiliate. Ciononostante, i dati Istat mostrano come la sedentarietà sia ancora molto diffusa tra i disabili, con valori del 58% nella fascia di età 6-44 anni, del 76% nella fascia 45-55 e quasi del 90% per la fascia degli over 65. E, proprio come negli Stati Uniti, la percentuale di persone con disabilità che non svolge alcuna attività fisica o sportiva è quasi doppia di quella relativa ai normodotati.

Le cause sono molteplici. E dipendono da ostacoli e barriere di diversa natura, alcune di tipo soggettivo e personale, altre oggettivo e “ambientale”. Tra le prime rientrano il dolore fisico, la mancanza di energie, la scarsa consapevolezza nei propri mezzi, i pregiudizi, la depressione e altri disturbi psicologici. Le seconde comprendono invece mezzi pubblici inefficienti, servizi di trasporto attivo mai implementati e rimasti solo sulla carta, barriere architettoniche, a volte l’impreparazione degli operatori, disorganizzazione dei servizi, palestre non attrezzate.

Che cosa fare?
Come sottolinea il dossier di Lancet, le soluzioni ci sono e devono provenire dalla collettività. Serve una rivoluzione culturale, a cominciare dalle politiche e dalle strategie di comunicazione sull’handicap. Ma serve anche una revisione degli interventi sociosanitari, la formazione degli operatori (sfruttando le potenzialità di web ed e-learning) e la creazione di infrastrutture capaci di fornire risposte adeguate e favorire maggiore inclusione.

In realtà queste misure non andrebbero a beneficio solo di portatori di handicap e disabili, perché rendere più facile l’accesso alla pratica sportiva aiuterebbe anche tante altre categorie e fasce di popolazione fragili. Stiamo parlando, per esempio, degli anziani o di chi è affetto da qualche malattia. O ancora delle donne, che scontano un tradizionale svantaggio di genere (i numeri parlano chiaro) e sono ancor più penalizzate quando vivono la gravidanza o la menopausa, nonostante i benefici - ormai ampiamente dimostrati - di un regolare esercizio fisico in queste fasi della vita. Stessa cosa succede tra chi ha difficoltà economiche (e la crisi sta allargando questa fetta di popolazione), tra chi ha un titolo di studio basso, tra i migranti o i carcerati. Fino a situazioni e condizioni addirittura “estreme” e particolari, come quelle con cui devono convivere, spesso per lunghi mesi, gli astronauti in orbita intorno alla Terra sulla stazione spaziale internazionale. Per i quali tenersi in allenamento è una questione di sopravvivenza, più che di salute.

Ultimamente hanno visto la luce nuovi approcci assistenziali e iniziative di sostegno, e molti atteggiamenti rinunciatari stanno lasciando il passo a timidi segnali di cambiamento. Gli esempi di buone pratiche dunque non mancano ma, proprio per la specificità di questi problemi, non si può improvvisare né nella progettazione né nella messa in pratica delle misure più opportune. Dalla ricerca e dalle linee guida, passando per l’organizzazione di sistemi efficienti, fino ad arrivare all’intervento di personale esperto e qualificato: è questo l’unico percorso possibile per non disattendere il diritto, sancito dall’art. 31 della Convenzione dei diritti delle persone con disabilità, di accesso universale (a portatori di handicap e non, ad adulti e bambini) a ogni attività sportiva, ricreativa o ludica.

 

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