C’è del buono in Danimarca: il caso Copenhagen

La bici: mezzo di trasporto salutare, volano per turismo ed economia. Un modello da esportare in tutta Europa.
15/04/2014
  • Milly Barba
Copenhagen e le biciclette

“Copenhagen, city of cyclist”, recita con fierezza lo spot promozionale della città danese. Da circa un secolo, la bella capitale nordica ha fatto del trasporto in bicicletta il suo punto di forza, divenendo esempio di eccellenza per la mobilità sostenibile in tutta Europa. Ma che cosa accadrebbe, se si potesse applicare questo sistema vincente anche alle altre capitali europee? L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) si è posta la domanda, cercando di comprendere, attraverso una serie di studi, in che misura il modello Copenhagen potrebbe giovare al vecchio continente.

Le caratteristiche del sistema
Vediamo intanto come si articola la mobilità ciclabile a Copenhagen. La città, dotata di più di 400 chilometri di piste, garantisce un’accoglienza completa ai ciclisti: le cosiddette cycle infrastructure (le apposite zone ciclabili), infatti, non si limitano ai percorsi cittadini. Se si arriva in centro in bicicletta ci si può imbattere in un cycle bridge, un ponte aperto esclusivamente alle due ruote, o magari percorrere una green cycle route, uno dei cammini tracciati negli spazi verdi che immerge i viaggiatori in un rilassante clima bucolico a pedali. I mezzi pubblici sono dotati di appositi vani per il trasporto (gratuito) delle bici e, nei luoghi di lavoro, i dipendenti possono rinfrescarsi dopo la pedalata del mattino. Facile, dunque, immaginare come mai l’87% degli abitanti di Copenhagen possieda una bicicletta. Dei 520 mila cittadini, inoltre, il 67% si sposta in bici ogni giorno. «And it works!», affermano con soddisfazione e orgoglio i danesi. Sì, perché il “sistema Copenhagen” funziona e lo fa su più fronti.

Esportare il modello danese: creare nuovi posti di lavoro
In termini di trasporti su due ruote, la capitale danese non è l’unica ad aver attuato politiche efficaci. Dal 1995 anche altre città, per esempio Londra e Parigi, hanno adottato i primi servizi di bike sharing urbano simili a quello di Copenhagen. Dopo qualche anno, anche capitali più piccole (come Bucarest, Lubiana, Praga, Tirana e Varsavia) hanno seguito l’esempio, dotandosi di tecnologie innovative per agevolare l’uso della bici e aumentare la sicurezza dei ciclisti. Tuttavia, nessuna città ha mai raggiunto i livelli della danese. È proprio per questo che l’Oms ha cercato di stimare gli esiti possibili dell’estensione del modello Copenhagen alle altre capitali europee. Vediamo come. Utilizzando un semplice modello statistico, si presume che a Copenhagen siano 650 i posti di lavoro associati all’uso della bicicletta (si pensi alle numerose attività di noleggio e di vendita - alcune pensate e nate proprio in Danimarca - come la trentennale casa produttrice delle christiania bikes, le biciclette dotate di un carrello anteriore per trasportare le merci). Dato che, per esempio, la popolazione di Berlino è circa 6,4 volte quella di Copenhagen, ci si potrebbe aspettare di ottenere 4.146 posti di lavoro (ossia 650 x 6,4) in più, se la capitale tedesca adottasse lo stesso modello. Ma a Berlino gli spostamenti su due ruote arrivano al 13% del totale, la metà esatta di Copenhagen: sono quindi 2.073 i posti di lavoro che i berlinesi potrebbero avere in più solo grazie alle bici.

Tutte queste cifre sono comunque sottostimate: perché non tengono conto degli effetti sul mercato dell’indotto, perché prendono in considerazione solo una città per ogni Paese, perché non prevedono che i livelli raggiunti nella capitale danese siano ulteriormente migliorabili e, infine, perché la proporzione di occupazione associata alle biciclette è ridotta (5%) rispetto al potenziale complessivo dei trasporti green & healthy.

Un autentico volano per l’occupazione
Dai test effettuati è così emerso che, investendo risorse sui trasporti a pedali, in tutta Europa si potrebbero creare quasi 80 mila nuovi posti di lavoro. In particolare, una città come Mosca avrebbe le potenzialità per offrire 12 mila nuove occasioni lavorative, così come Londra (8 mila). Ma non è tutto. Come per Copenhagen, infatti, queste stime non tengono conto di molti altri impieghi legati al mezzo a due ruote, quali le attività turistiche o la produzione di accessori e di abbigliamento specifico. Per esempio, in Austria i posti di lavoro collegati in modo diretto o indiretto al ciclismo sarebbero circa 18 mila. Di questi, il 42% apparterrebbe al settore del cicloturismo e il 41%, invece, costituito da altre occupazioni connesse alle bici in modo indiretto. E ancora: in Germania i posti di lavoro a tempo pieno nell’industria ciclistica sarebbero 278 mila, in Francia 33 mila. Insomma, puntare forte sul ciclismo potrebbe costituire una vera svolta per lo sviluppo locale, con conseguenze positive anche a livello macroeconomico.

La salute passa anche dalla bici
Il calcolo dei benefici, tuttavia, non si limita solo alle nuove possibilità di impiego e ai riflessi economici di una mobilità più sostenibile. Il modello Copenhagen, infatti, giova soprattutto alla salute di chi lo adotta. La conferma arriva da Heat, lo strumento di valutazione utilizzato dall’Oms per registrare gli esiti sul benessere derivati dai cambiamenti nei livelli di ciclabilità e mobilità pedonale. Estendendo il sistema danese a 56 città europee, ogni anno si eviterebbe la morte prematura di ben 94 mila persone. Un numero davvero considerevole, che potrebbe crescere ancora applicando il modello all’intera Europa e non solo alle sue città principali.

 

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