La strada è di tutti
- Stefano Menna
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«Il futuro delle città è senz’auto. E non lo dicono più solo gli ambientalisti o i produttori di biciclette. Ma sono gli stessi colossi dell’industria automobilistica, come Bmw e Ford, a sottolinearlo con i loro ultimi investimenti e il lancio di progetti innovativi nei settori dell’automazione, della smart mobility e nei programmi di condivisione dell’auto». Quello che può sembrare un paradosso, secondo Matteo Dondè - architetto ed esperto in pianificazione della mobilità ciclistica, moderazione del traffico e riqualificazione degli spazi pubblici - è invece la più recente tendenza e domanda del mercato a cui il mondo dell’automotive non può rimanere sordo. Perché la sicurezza, la riduzione del traffico, dell’inquinamento e dei tempi di spostamento sono valori che stanno a cuore a tutti, automobilisti compresi. E che hanno un impatto forte sul benessere e sulla qualità della vita di chi in città ci vive e ci lavora.
Una nuova visione di città
«L’Europa centro-settentrionale è da sempre all’avanguardia su questi temi. Qualche esempio: Amburgo ha da poco varato un piano che, nel giro di vent’anni, renderà praticamente inutile l’uso dell’auto. Stessa cosa sta facendo Helsinki. Anne Hidalgo, sindaco di Parigi, ha dichiarato di voler trasformare la Ville Lumière in una città a misura di ciclista allestendo ovunque, al di fuori della viabilità principale, nuove zone 30. Significa rivoluzionare tre quarti della viabilità della capitale francese. Ma significa anche che dietro c’è una visione di città ben diversa da come è stata concepita fino a oggi», racconta Dondè.
E in effetti è proprio la visione che sta cambiando. Mentre dal dopoguerra fino agli anni Novanta il nostro immaginario di modernità ruotava attorno all’auto (simbolo di libertà, ricchezza e autonomia), oggi sappiamo che questo modello non è più sostenibile. «Stiamo sperperando risorse in un mezzo che non è efficiente e comporta spese eccessive a livello economico, sanitario e sociale. Solo nel nostro Paese, gli incidenti stradali provocano più di 3.300 morti all’anno. Un numero enorme, una vera e propria strage: è come se precipitasse un Boeing 747 quasi ogni mese. Non solo: i relativi costi sociali diretti e indiretti erodono il 2% del Pil, pari a 30 miliardi di euro. E altri 15 miliardi li buttiamo per i danni del traffico e dell’inquinamento sull’ambiente», continua l’esperto.
Ripensare l’uso degli spazi urbani
E allora, che fare? Tanto per cominciare, consumare meno territorio evitando di costruire altre strade su cui far correre le macchine. «Perché nuove strade generano nuovo traffico. Nell’ingegneria dei trasporti, le strade vengono considerate come le tubature dell’acqua: se si aprono nuove deviazioni, l’acqua andrà a occuparle tutte. In Olanda, dal 1972 una legge impone di costruire solo dopo aver realizzato prima le infrastrutture. Con l’obbligo di prevedere una fermata di autobus nel raggio di 500 metri o una di treno nel raggio di 2 km da ogni nuovo insediamento», spiega Dondè. Una legge che risale a più di quarant’anni fa, ma che sembra anni luce avanti rispetto alla realtà italiana. «Lo spazio pubblico delle nostre città è costituito per l’80% da strade. Siamo ormai una “città diffusa” e il territorio compreso tra Veneto e Lombardia è emblematico: una trama di strade senza soluzione di continuità. Un modello di come non bisognerebbe costruire, esclusivamente a misura di automobile: una rete così fitta e intricata da essere impermeabile anche ai servizi di trasporto pubblico, che infatti sono tutt’altro che efficienti», ribadisce l’architetto.
Non potendo “sventrare” un ambiente così densamente costruito, l’unica soluzione è ripensare l’uso degli spazi. «La prima cosa è puntare sulla sicurezza. Abbassando la velocità, innanzi tutto. Perché una viabilità più lenta non comporta benefici solo per pedoni e ciclisti, ma anche per gli stessi automobilisti: andando più piano si riducono rumore, inquinamento e consumi. Per farlo, però, non basta mettere un cartello che impone di non superare i 30 km/h: se la strada rimane la stessa di prima - larga, senza elementi di moderazione del traffico (dossi, chicane, cordoli, isole ecc) e senza autovelox - sarà difficile rispettare i limiti. Ecco allora che è importante intervenire anche sugli arredi urbani. Per esempio prevedendo, nella fascia centrale della carreggiata, le isole salvagente protette che impediscono alle auto il sorpasso nei pressi degli attraversamenti pedonali. Oppure gli stalli di sosta alternati e le aiuole per restringere il passaggio e costringere le auto a rallentare», sottolinea Dondè.
Living street
Meno spazio carrabile significa abbassare la velocità delle macchine, migliorare la circolazione di pedoni e ciclisti e favorire la creazione di aree verdi o zone di sosta. La strada quindi come spazio aperto, sicuro e condiviso, da restituire alle persone. «Mettere in sicurezza la viabilità principale e realizzare percorsi ciclabili è stato proprio l’obiettivo di una serie di sperimentazioni che abbiamo realizzato con alcune amministrazioni, per esempio a Terni o Reggio Emilia. Qui, grazie alle isole salvagente e a nuove corsie ciclabili, da asse di scorrimento pensato esclusivamente per le auto, via Emilia Ospizio è stata trasformata in una strada capace sia di soddisfare (mantenendole) le strategiche esigenze di mobilità, sia di funzionare da via di quartiere, più sicura e accessibile anche per pedoni e ciclisti», continua l’architetto.
È la filosofia delle living street: cioè pensare la strada non solo come arteria per il traffico urbano dei veicoli a motore, quanto come spazio di relazione tra diversi utenti (automobilisti, pedoni, ciclisti, residenti, studenti ecc) con diverse funzioni (ricreative, commerciali, legate ai trasporti ecc). «In un contesto cittadino più equilibrato l’anziano si sente sicuro, il bambino può andare a scuola a piedi, il commerciante è contento perché la strada è vivibile se ci sono più negozi, verde e panchine. E se poi la strada è anche bella, vissuta, ben illuminata e frequentata, diminuiscono degrado e delinquenza», ribadisce l’esperto.
Se la città non è proprietà né territorio incontrastato delle macchine, può tornare a essere luogo di incontro e socializzazione. «Non solo. Il modello delle living street potrebbe aiutare anche a riscoprire e valorizzare i centri storici, che oggi soffrono di abbandono e desertificazione. Realtà che muoiono mentre stiamo continuando a costruire in periferia centri commerciali e outlet: “non luoghi” nati negli Stati Uniti, paradossalmente proprio per replicare il modello dei piccoli centri dove la gente va a passeggiare, si incontra e fa acquisti», spiega Dondè.
Valutazione e scelte condivise
È allora fondamentale coinvolgere la politica e la società civile, condividendo con amministratori, tecnici e cittadini le decisioni, il processo di monitoraggio e la valutazione degli interventi. «Lavorare in strada permette di incontrarsi (e scontrarsi) con le persone, poter spiegare le ragioni e la visione che sta alla base dell’intervento. Durante la sperimentazione che abbiamo fatto a Terni, molti cittadini si sono dimostrati entusiasti, altri piuttosto contrari, altri ancora - sebbene perplessi in un primo momento - hanno poi cambiato opinione dopo aver visto i risultati. In ogni caso, tutti hanno dato l’impressione di adeguarsi rapidamente alla nuova situazione. Tanto che alcuni, saputo che si trattava di un’installazione temporanea, si sono subito attivati per creare un gruppo di pressione nei confronti del Comune per ottenere un intervento definitivo», racconta Dondè. E i numeri hanno dato risultati confortanti. «Su via Emilia Ospizio a Reggio Emilia, dal 2011 al 2013 abbiamo ridotto l’incidentalità del 36% e l’investimento di pedoni e ciclisti del 50%. Sul resto della viabilità, con l’intero centro storico trasformato in zona 30 già dal 2007, tra il 2009 e il 2013 abbiamo registrato un -7% di feriti tra ciclisti e pedoni e un +10% di ciclisti in ingresso al centro», prosegue Dondè.
Migliorare la comunicazione. E anche la politica
In questo processo di cambiamento, da un modello auto-centrico a uno condiviso in cui gli spazi urbani sono restituiti a una pluralità di utenti, gioca un ruolo chiave la comunicazione. «Il dialogo con i cittadini e una buona informazione su questi temi aiuta la politica a scegliere. In Italia ancora oggi passa l’idea di un conflitto perenne tra utenti della strada: automobilisti contro ciclisti, pedoni contro automobilisti, anziani contro giovani ecc. Quando invece in Europa si mette al centro del dibattito il benessere e la qualità della vita urbana, che non è frutto di una lotta di parte ma un valore universale da cui tutti hanno da guadagnare (anche chi continua a usare la macchina). Alle spalle dei decisori manca poi un sistema adeguato di formazione e aggiornamento professionale per dirigenti e tecnici degli uffici mobilità, come c’è per esempio in Francia. Una struttura efficiente, capace di fornire dati e valutazioni oggettive, aiuterebbe la politica a essere più forte, a decidere sulla base delle evidenze e anche a raccogliere i frutti di scelte che all’inizio possono sembrare impopolari», sottolinea l’architetto.
Dare nuove regole alla mobilità sembra quindi un punto decisivo. «Per le riforme (a iniziare da quella del Codice della Strada, in discussione in Parlamento) servirebbe una forte sinergia, uno sforzo comune e trasversale tra diverse professionalità. Perché i problemi urbanistici non sono solo “materia da architetti”, ma riguardano sociologi, psicologi, medici, forze dell’ordine, commercianti, operatori del turismo e tanti altri stakeholder. Investire insieme sulla qualità porta ad avere città più belle, più sane e meno inquinate. In una parola: più vivibili», conclude Dondè. È proprio con questo spirito aperto e multidisciplinare che si terranno a Bologna dal 10 al 12 aprile 2015 gli “Stati generali della mobilità nuova”: un’occasione di discussione e confronto sulla città e sul futuro dei trasporti nel nostro Paese, tra amministratori nazionali e locali, imprese, enti di ricerca, urbanisti, associazioni, organizzazioni di categoria e cittadini.
Un commento
strade condivise
Inviato da Italo (non verificato) il
Io lavoro e vivo ormai da un anno al confine tra Belgio ed Olanda, e sono un appassionato ciclista sia della domenica come sportivo che dei giorni feriali come mezzo di trasporto. Una cosa che ho notato e apprezzato è la suddivisione della carreggiata: le strade sono abbastanza larghe, per cui i parcheggi a lato della carreggiata sono posti tra la via di scorrimento e la pista ciclabile, proteggendo di fatto i ciclisti dalle vetture in transito. Un altro vantaggio è rappresentato dal fatto che l'apertura della portiera avviene lato strada (e non lato ciclista): si evitano quindi gli impatti dei ciclisti sulla portiera che si apre all'improvviso, dato che statisticamente sono inferiori i passeggeri rispetto agli autisti.
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