Promozione della salute o profitto a ogni costo: una terza via è possibile?
- Pirous Fateh-Moghadam, Stefano Menna
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Una consultazione pubblica voluta dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) per rivedere le linee guida sulla quantità di zuccheri contenuti nei prodotti alimentari. Ma anche una riforma che, almeno negli Stati Uniti, rivoluzionerebbe l’etichettatura dei prodotti alimentari costringendo le multinazionali ad arretrare di qualche passo sul fronte del marketing più aggressivo. Negli ultimi giorni istituzioni e organismi di controllo internazionali sembrano aver rilanciato la sfida alle grandi aziende del settore food & beverage, nell’eterna lotta per promuovere un’alimentazione e stili di vita più sani.
Dalle linee guida Oms alle iniziative di Obama
A oltre dieci anni dalla stesura delle prime raccomandazioni e alla luce delle numerose prove scientifiche che si sono via via accumulate, l’Oms sta sottoponendo a revisione il documento internazionale di riferimento sui livelli massimi di zuccheri ammessi nei prodotti alimentari, nel tentativo di dimezzarne le quantità. È possibile accedere alla bozza del documento e proporre commenti direttamente sul sito dell’Oms, fino al 31 marzo. Il testo in discussione prevede che gli zuccheri costituiscano meno del 10% del totale dell’apporto calorico giornaliero. Se poi il livello scendesse al 5%, si avrebbero ulteriori vantaggi per la salute. Si tratta di una soglia pari a una media di circa 25 grammi di zuccheri al giorno. In termini concreti, significa che con una sola lattina di aranciata, cola o qualsiasi altra bevanda dolce - che ne contiene fino a 40 grammi (più o meno 10 cucchiaini di zucchero) - già si oltrepasserebbe il limite giornaliero raccomandato, raggiungendo quasi il valore massimo consentito (50 grammi). Si capisce bene, quindi, come anche questa volta la battaglia con il mondo dell’industria si annunci lunga e dura.
L’iniziativa segue di pochi giorni quella avanzata negli Stati Uniti dalla Food and Drug Administration, che propone una modifica radicale all’etichettatura dei prodotti alimentari: l’obiettivo è mettere in evidenza in modo più chiaro le calorie, modificare le quantità che definiscono la singola porzione e aggiungere informazioni specifiche sugli zuccheri aggiunti. Trasformare l’elenco dei dati nutrizionali in informazioni più semplici da capire significa facilitare la libera scelta dei consumatori, spesso ostacolata da strategie di marketing che puntano sull’opacità dell’etichetta. Non a caso, una proposta alternativa prevede una comunicazione ancor più forte, con messaggi diretti al consumatore come: “si dovrebbe consumare meno” o “attenti ad assumerne abbastanza”. Anche qui, la proposta è aperta alla pubblica discussione per 6 mesi. La stessa first lady Michelle Obama ha rilanciato l’iniziativa, sottolineando allo stesso tempo la necessità di bandire da scuole e università tutte le forme di pubblicità, promozione e marketing del cibo spazzatura e delle bevande dolci e gassate, causa di obesità e sovrappeso in tutto il mondo (guarda la sintesi della conferenza stampa di presentazione, o la versione completa).
Come contrastare i poteri forti?
Ma certo le resistenze non mancano. La storia dell’industria del tabacco e della diffusione dell’abitudine al fumo è emblematica e dimostra che le strategie di marketing aziendale sono un fattore in grado di condizionare la salute della popolazione. Non a caso, si parla di “determinanti commerciali della salute” e di “malattie trasmesse dal marketing” da affrontare con interventi specifici. Oggi a contribuire a creare problemi di salute con i propri prodotti «non è più solo Big Tobacco. La sanità pubblica deve vedersela anche con Big Food, Big Soda (termine che indica l’insieme di bevande zuccherate e gassate - ndr) e Big Alcohol». Lo ha ricordato il direttore generale dell’Oms Margareth Chan, nel discorso di apertura dei lavori dell’ottava conferenza internazionale di promozione della salute, che si è tenuta a Helsinki a giugno del 2013. «Tutte queste industrie temono interventi regolatori e proteggono i propri interessi con le stesse tattiche».
Tra queste, Chan cita le promesse di auto-regolamentazione, la conduzione di cause legali, il finanziamento di ricerche predisposte per creare confusione e diffondere dubbi, donazioni e il sostegno a iniziative di promozione della salute e di “buone cause” per apparire rispettabili agli occhi di cittadini e politici. Per Chan non si tratta di un aspetto marginale, ma di «uno dei problemi maggiori con cui oggi si deve confrontare la promozione della salute», visto che gli sforzi finalizzati alla prevenzione delle malattie croniche si scontrano con gli interessi di aziende molto potenti. «Vorrei ricordarvi», avverte Chan, «che l’epidemia di obesità non è dovuta al fallimento della forza di volontà degli individui, ma alla mancanza di forza politica nel contrastare gli interessi dei poteri forti economici».
Promozione della salute vs. profitto a tutti i costi
Il conflitto di interessi risulta pertanto evidente e viene riconosciuto e denunciato ai massimi livelli della sanità pubblica mondiale: da una parte la promozione della salute, dall’altra i profitti delle industrie produttrici di alimenti e bevande insalubri. Per far dimagrire la popolazione, come ricorda Kelly Brownell del Rudd Center for Food Policy and Obesity dell’Università di Yale, si dovrebbero vendere meno prodotti. Cosa che pone in contrasto l’obiettivo prioritario dell’industria con quello della salute pubblica. In assenza di regolamentazione, dal punto di vista degli investitori e degli azionisti il privato ha l’opportunità - se non l’obbligo - di vendere più prodotti. Indipendentemente dall’impatto sui consumatori e sulla loro salute. «È proprio per questo che governi, fondazioni e altre istituzioni dovrebbero lavorare per la regolamentazione del mercato, invece di stabilire collaborazioni con l’industria», conclude Brownell.
Un problema che anche le istituzioni di un paese come gli Stati Uniti, certo non ostile alla libertà di mercato, stanno iniziando ad affrontare, come dimostrano le iniziative di Michelle Obama nell’ambito della campagna “Let’s move”, ma anche quelle promosse a livello locale dell’ex sindaco di New York, Michael Bloomberg. Un primo cittadino spesso definito come “avvocato della salute”: restano famose le sue battaglie per sostenere l’attività fisica nei parchi, per dotare la Grande Mela di piste ciclabili e di un servizio di bike sharing capillare; così come quelle contro il fumo nei luoghi pubblici e il consumo eccessivo di sale, per la riduzione delle dimensioni delle porzioni in mense e ristoranti o delle bibite dolci e gassate.
Alla ricerca di una (complicata) alleanza
Per contro, in Italia sembrano moltiplicarsi collaborazioni di enti pubblici con aziende e industrie private per affrontare problemi che sono in gran parte provocati dagli stessi partner delle alleanze: per esempio, il protocollo di intesa del 2012 tra Miur e Federalimentare per affidare l'educazione alimentare nelle scuole direttamente all’industria, attraverso l’iniziativa “Il gusto fa scuola”. Oppure la recente decisione dell’Università di Perugia e della Regione Umbria di accettare un “finanziamento non vincolante” dalla Coca-Cola Foundation per un programma di prevenzione dell’obesità infantile.
Secondo Jeffrey Koplan - ex direttore del Centers for Disease Prevention and Control di Atlanta e direttore del Global Health Institute dell’Università Emory di Atlanta - si tratta di un gioco tutto a favore delle aziende, che vogliono «acquisire più credibilità attraverso accordi con partner rispettabili della sfera pubblica, con ricercatori e organizzazioni professionali creando conflitti di interesse. E, nello stesso tempo, fare resistenza alle misure di sanità pubblica, negando qualsiasi responsabilità rispetto all’impatto sulla salute dei propri prodotti e dipingendo tutti coloro che si oppongono a loro come critici, non obiettivi e ideologici». Nel 2012, la stessa reazione del mondo industriale italiano alla proposta (ritirata nel giro di poche settimane) dell’allora ministro della salute Renato Balduzzi di tassare le bevande zuccherate può essere vista come una conferma “sul campo” delle tesi di Koplan.
Ovviamente non si tratta di scegliere in maniera pregiudiziale pro o contro qualsiasi collaborazione tra sistema pubblico e aziende private: esistono infatti numerosi esempi in cui le alleanze sono possibili e reciprocamente vantaggiose. O dove gioca un ruolo chiave la comunicazione pubblicitaria, che ha responsabilità sul fronte educativo e culturale. Si tratta piuttosto di stabilire un preciso perimetro etico all’interno del quale queste alleanze possono e devono collocarsi. Un percorso difficile, ma necessario e al quale questo dossier vuole contribuire mettendo a confronto e in discussione diverse posizioni ed esperienze.
Leggi gli altri articoli del dossier:
- Collaborazione pubblico-privato: si può fare, a patto che…
- Pubblicità e salute, un rapporto complesso
- L’importanza di essere coerenti.
E vai al contributo di Francesca Racioppi (Oms) all’edizione 2013 del Mercuriale: “Lo sviluppo di parternship fra pubblico e privato per la promozione dell’attività fisica: opportunità e limiti” (presentazione, audio, video della relazione).
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